di Andrea Ponsi
La prima volta che incontrai Cristiano Toraldo di Francia fu nel lontano 1969, quando, fresca matricola della facoltà di architettura di Firenze, mi inoltrai per la salita di Bellosguardo per andare a trovare nel loro studio i membri del Superstudio ,il più interessante gruppo di neolaureati della stessa facoltà, le cui modeste intenzioni erano semplicemente quelle di cambiare il mondo. Anch’io fui preso da quella febbre del cambiamento; anch’io, ammirando i loro fotomontaggi pubblicati su Domus e Architectural Design, avrei voluto cambiare il mondo.
La prima immagine che ho di Toraldo è quella di un volto nobile, affilato, quasi completamente nascosto da lunghi e fluenti capelli, piegato sul tavolo da disegno intento a delineare in prospettiva la superfice quadrettata di una vista del Monumento Continuo. Ricordo bene anche il tavolo: uno di quegli ingombranti tecnigrafi che ogni studente di architettura riceveva in dono dai genitori al primo anno di università. Non ricordo altro di quel primo giorno nello studio di Bellosguardo. Mi tornano però in mente le tante altre visite nei vari studi in cui il Superstudio si era trasferito in quegli anni: i locali completamente tappezzati di feltro grigio in via delle Mantellate, poi la palazzina liberty in una strada della periferia ottocentesca di Firenze.
Sebbene fossi un semplice studente e lui già un affermato architetto cominciammo a frequentarci, a pranzare e cenare insieme. Coglievo ogni possibile opportunità di mostrargli i miei schizzi, immaturamente radicali, e naturalmente ispirati ai loro progetti, così magistralmente disegnati. Era aperto, affabile, sorridente. Nei suoi occhi si leggeva la generosa disponibilità di una persona di grande cultura, di un artista libero, di un coraggioso sperimentatore. Insomma, tutto ciò che avrei voluto essere, o almeno diventare io, nel corso della mia vita di architetto.
L’articolo prosegue sul numero 320 di Cultura Commestibile