di Daniele Gardenti
A quarant’anni dalla scomparsa di Demetrio Stratos, quest’icona della musica contemporanea italiana, front man dei Ribelli e degli Area, resta un punto di riferimento e di ispirazione per molti.In particolare i suoi studi e le sperimentazioni sulla vocalità e la fonazione sono un punto d’arrivo teorico-pratico su come la voce possa essere strumento completo, consustanziale al corpo di cui è espressione. Ben oltre i confini nazionali (tanto che fu fondamentale la collaborazione con John Cage) la sua lezione sembra oggi essere più viva, forse, che negli anni ‘90, tempo in cui quel genere di approccio alla musica, lontano da ogni sirena commerciale, appariva irrealistico e inconcepibile. E’ noto che Stratos morì per i postumi di una gravissima forma di anemia aplastica, i giorno prima in cui si doveva tenere un concerto a Milano per raccogliere fondi per garantirgli la costosa degenza al Memorial Hospital di New York, in attesa di un trapianto di midollo osseo. Al concerto avrebbe dovuto partecipare la PFM, di cui Mauro Pagani era stato fondatore e polistrumentista. Daniele Gardenti, a lungo collaboratore di Mauro Pagani nell’esperienza dell’Estate Fiorentina (2000-2007), lo ha intervistato per noi, proprio sull’importanza di Demetrio Stratos nella musica contemporanea e sperimentale italiana.
Nella mostra il “Corpo della voce”, al Palazzo delle Esposizioni a Roma, sono stati accomunati sullo stesso piano di ricerca un protagonista della musica popolare leggera, Demetrio Stratos, una cantante lirica con vocazione sperimentale, Kathy Berberian e un uomo di teatro del calibro di Carmelo Bene. Gli anni ‘60 e ‘70 sono stati dunque un momento in cui la musica pop era ai livelli della classica o comunque era in grado di dialogarci alla pari. Come mai non si è proseguito su quella strada?
Il fenomeno era chiaramente di portata internazionale, ma in Italia c’era una fortissima corrente culturale che lavorava sulla tradizione popolare, con studiosi come De Martino e altri. Era, tra l’altro, in qualche modo una bandiera culturale della sinistra di quegli anni. La raccolta di materiali musicali popolari si intensifica dagli anni ‘50 in poi creando vere e proprie banche dati ancora oggi disponibili e consultabili. La parte più illuminata del mondo classico da secoli aveva compreso la relazione fra musica popolare e musica alta, basti pensare a Bartok o addirittura Brahms. Per tutto l’Ottocento era diffusissima tra i musicisti la pratica di ascoltare e studiare le melodie popolari. Si narra che persino Beethoven usasse incontrare “venditori” di melodie. Potevano essere musicisti che per arrotondare vendevano proprie melodie a colleghi più famosi, ma penso anche raccogliessero melodie popolari trascrivendole per venderle. Verso la fine dell’Ottocento sono comparsi gli editori di musica, veri e propri mercanti di note che vendevano partiture e trascrizioni. E qualche decennio dopo è comparsa l’industria discografica: commercianti di supporti musicali divenuti in pochi anni così ricchi e potenti da oscurare per molto tempo il ruolo degli editori. Nei nostri anni la progressiva scomparsa del supporto a favore della distribuzione “liquida” della musica ha messo in crisi irreversibile i discografici e restituito importanza e centralità agli editori, che per altro gestiscono in esclusiva i diritti di una composizione fino a settant’anni dopo la morte dell’autore. Tra l’altro l’assottigliarsi dei compensi derivati dalla vendita dei supporti fisici sta facendo sì che il diritto d’autore sia ormai l’unica fonte di guadagno certo per gli autori ed è ovvio che questi cerchino di difenderlo ad ogni costo, anche se questo risolve solo in parte il problema. Produrre musica comporta lavoro, di molti: fonici, arrangiatori, grafici e quant’altro. Il diritto d’autore tutela solo il compositore: e gli altri? E’ un problema non da poco, che però va affrontato.
L’intervista prosegue sul numero 317 di Cultura Commestibile